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Sul linguaggio di genere: intervista a Teresa Cinque

Avvocata, architetta, ministra: che genere di linguaggio parliamo e cosa ci sta dietro alla declinazione o meno di certe parole al femminile singolare? Scopriamolo insieme!
Teresa Cinque

Sul linguaggio di genere: intervista a Teresa Cinque

Potremmo presentarla come attrice comica, ma sarebbe molto riduttivo. Potremmo definirla autrice e monologhista, ma anche qui ci staremmo strettine. Potremmo dirti che è la massima esperta in Errori di base (sull’amore, il sesso, la femminilità, il femminismo), e qui la definizione sarebbe già più calzante. Parliamo di Elisa Giannini, in arte Teresa Cinque, capace di toccare e proporre tematiche fondamentali del linguaggio, del femminile e maschile, con un approccio ironico, mai volgare, ma sempre acuto, spontaneo, coinvolgente.

Ecco, con grande piacere, Teresa Cinque è la protagonista della nostra intervista sul linguaggio di genere. Perché anche tu inizi a conoscerla (e ad adorarla tanto quanto la adoriamo noi!) entrando nel tema in questione, guarda il video “Una donna” pubblicato sui canali YouTube e IG TV di Teresa Cinque lo scorso 4 febbraio.

Intervista a Teresa Cinque

L’abc del linguaggio di genere

Ciao Teresa e benvenuta sul blog di Punto e Virgola! Abbiamo preso spunto da un video che hai pubblicato di recente per iniziare la nostra chiacchierata. Come a dire: forse, per imparare l’abc del linguaggio di genere sarebbe utile iniziare proprio dal chiamare le donne con il proprio nome e cognome?

Esatto: nome e cognome sono fondamentali! Pensate un po’ se qualcuno avrebbe mai l’ardire di dire “alla presidenza degli USA è stato eletto Donald”, come se fosse suo zio o suo cugino! Mentre nel caso di Kamala Harris è accaduto proprio questo.

Chiamando una persona solo per nome si sminuisce la figura istituzionale, la professionalità e anche il peso specifico dell’incarico che ricopre. Perché per nome chiami le amiche, i parenti o le persone con le quali hai confidenza. Non ho nulla contro la confidenza e il parentado, ma diverso è quando si parla di ruoli istituzionali o anche professionali.

Chi mai direbbe “alla presidenza del consiglio c’è Mario”? Mentre per le donne viene detto (e scritto) come se fosse una cosa normale. Quando addirittura si titola “una donna” allora lì è l’apoteosi dello sminuire perchè ovviamente “una per tutte” è come dire “una vale l’altra”.  Come saprete, c’è tutta una polemica intorno a questo argomento portata avanti sia da Michela Murgia che dall’account “Una Donna A Caso” dedicato ai titoli che scrivono “una donna” invece di nome e cognome. 

Quindi, non è tanto il proclamare un successo o un passo avanti evolutivo ma è il ribadire che lì c’è una donna, che è una cosa strana e che, il fatto che sia una donna, sia anche un po’ messo in discussione, della serie: “C’hanno messo una donna, chissà se sarà il caso?”

Al contrario, nel momento in cui non scrivi ”un uomo” ma scrivi “Giuseppe Conte” le eventuali critiche o le considerazioni si riferiscono al suo operato e alla sua professionalità e non al genere a cui appartiene. Infatti nessuno metterebbe in discussione il fatto che lui non dovrebbe essere lì in quanto uomo. Mentre se scrivi “una donna presidentessa del Consiglio” metti subito sul tavolo la discussione o l’obiezione eventuale sul fatto che sia sensato che ci sia una rappresentante del genere femminile e non quella persona specifica con quel nome e quel cognome, che può essere più o meno competente ma non in quanto portatrice o meno di utero.

Il secondo passaggio: normalizzare la presenza femminile

E poi, il secondo passaggio qual è secondo te?

Il secondo passaggio è eliminare lo stupore per il fatto che una donna ricopra un incarico più o meno importante, è normalizzare la presenza femminile, in qualsiasi tipo di ruolo e di professione.

Insomma, che si tratti di una conquista scientifica, della vittoria di un premio Nobel o letterario, dell’ elezione a qualche incarico politico o della direzione di un’azienda, nel momento in cui verranno nominate con il loro nome e cognome queste professioniste, artiste, scrittrici, scienziate o quello che sono, non ci sarà più da mettere sul campo la questione se è il caso o meno che una donna ricopra quel certo incarico.

“Le parole che usi sono rivelatrici di quello che hai dentro”

Ma facciamo un passo indietro: linguaggio di genere, linguaggio sessista, linguaggio inclusivo. Ci aiuti a fare un po’ di chiarezza?

Oltre al linguaggio parlerei anche di postura mentale. Penso che l’inclusività sia una cosa più profonda, una cosa dell’anima e della sensibilità. Una persona che è profondamente inclusiva, anche se non ha poi tutta questa cultura sulla parità di genere, sarà inclusiva a prescindere.

Va benissimo che i tecnici e gli attivisti si occupino di trovare formule grafiche, grammaticali e fonetiche adeguate per cambiare, poco alla volta, la lingua, le parole, la mentalità e la cultura di un popolo. Però è anche vero che una persona con una sensibilità verso l’altro e il diverso (che si tratti di donna, uomo, bianco, nero, ricco o povero, abile o diversamente abile) sarà comunque portata a non parlare in un modo che esclude, perché molto spesso è più l’attitudine interiore che la scelta delle parole. 

A riprova di questo, potrei portare diversi esempi di intellettuali che, per quanto siano attenti ai dettagli e alle parole, da come si esprimono si sente e traspare una certa posizione di privilegio, una certa supremazia bianca, etero, intellettuale, ricca e, soprattutto, maschile. 

Quindi, le parole che usi o che non usi sono rivelatrici di quello che hai dentro cioè l’idea che hai dell’uomo e della donna, di come distribuisci i loro ruoli e le loro funzioni. Vedi gli ultimi episodi che hanno interessato Raffaele Morelli e Massimo Recalcati

Per quanto mi riguarda ho scelto il modo ironico, che è quello che mi viene più spontaneo, perché per il ruolo che ho e che mi sono ritagliata, mi permette di non essere ortodossa, magari di essere anche politicamente scorretta qualche volta o dire qualcosa a livello di terminologia non perfettamente aggiornata. L’ironia mi permette di puntare il dito, provocare e mettere l’attenzione su delle cose che normalmente non si notano. A me sembra che sia un po’ questo che fa l’ironia: pone l’attenzione sulle cose da un lato diverso. 

D’altro canto ha anche il potere di coinvolgere quelle persone che magari non sono già particolarmente alfabetizzate al femminismo o attente a certe tematiche, perché partendo dal far ridere, dal prendersi in giro (e io lavoro molto sull’autoironia, sui miei limiti, sui miei non funzionamenti e i miei errori, vedi il mio spettacolo “errori di base”)  riesco a coinvolgere anche delle persone che si identificano nell’errore e non necessariamente in una scelta di campo, come può essere quella femminista, e però così si avvicinano anche al femminismo in maniera naturale.

E poi è molto creativa e divertente, tant’è che a volte mi faccio ridere da sola! 

La strada fatta e da fare per un uso non sessista della lingua

Era il 1987 quando la linguista Alma Sabatini scrisse le sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua per il Parlamento: quanta strada è stata fatta da allora e quanta ancora resta da fare?

Siamo indietro da un certo punto di vista. Ma siamo anche tanto avanti perché ormai tutte queste questioni sono in discussione e, nel momento in cui iniziano a essere messe in discussione il processo non si ferma più. Oggi c’è almeno una femminista o un’attivista che tiene d’occhio come una sentinella un certo settore, un certo problema e il modo patriarcale di affrontare quel problema. Ormai siamo su tutto: ognuna segue quello che le è più affine, che sente più vicino, però tutto è ormai in discussione. Questa è la buona notizia. 

La cattiva notizia è che ci vorrà un po’ di tempo perché la resistenza è forte, perché chi deve rinunciare a dei privilegi ci mette tutta l’opposizione possibile e ha il potere dalla sua. Però noi abbiamo la determinazione, la resistenza, la forza e anche una capacità speciale che è quella tipica degli oppressi da secoli. Ovvero, abbiamo sviluppato la capacità di riuscire a dire le cose senza poterle dire direttamente, di riuscire a sopravvivere senza poter guadagnare i soldi direttamente, di riuscire a farci strada avendo tanti ostacoli davanti (per esempio, il non poter studiare o non poter votare). 

A tutte queste difficoltà che ci hanno messo davanti, vanno aggiunte molestie, violenze e tutti i soprusi che abbiamo subito. O muori o ti rinforzi e quindi, per forza, abbiamo sviluppato al massimo le capacità di stare al mondo, di rispondere ai problemi, di risolverli. 

C’è una frase bellissima di Hannah Gadsby tratta dallo show Nanette, opera meravigliosa che di fatto ha rivoluzionato il genere della stand-up comedy… Dicevo, c’è una frase in quest’opera che dice: “Non c’è niente di più forte di una donna che è stata spezzata e che si è rimessa insieme”.

Cosa ci sta dietro al maschile maiestatis

Perché c’è ancora chi è attaccato al maschile maiestatis più di una cozza allo scoglio e perché certi usi sono talmente sdoganati che nemmeno le donne si rendono conto di quel che ci sta dietro?

Una delle motivazioni principali per cui alcune persone sono ancora attaccate al maschile al punto che, come dite nella domanda, nemmeno le donne si rendono conto di quel che ci sta dietro, è l’abitudine: semplice semplice, niente di più. Quelli che ti dicono che la fonetica è antipatica perché architetta ricorda la tetta, oppure avvocata è dissonante, come pure ministra (che però, se ci pensate, come suoni ricorda molto la parola maestra, usata senza problemi), lo dicono semplicemente perché non ci sono abituati. 

Infatti ci sono mestieri che le donne hanno sempre fatto. Come la maestra, l’infermiera, la contadina, la cameriera: qui non disturba declinare al femminile. Mentre, se dobbiamo declinare al femminile ingegnere, avvocato o ministro, ci disturba perché prima questi mestieri non erano svolti dalle donne. Ecco la riprova che è semplicemente un problema di abitudine e non c’entra nulla la fonetica. 

Non solo. Se si parla di questo tema del linguaggio, del maschile e del femminile, non si può non citare Vera Gheno (aka @a_wondering_socilinguist su Instagram), linguista e studiosa che ha lavorato e scritto molto proprio su queste questioni, per esempio nel libro Femminile singolare. Ecco, lei ricorda che il vocabolario italiano prevede il femminile per le varie professioni, come quelle che ho appena citato: non c’è nulla di forzato, né di distorto, e nemmeno di moderno. È una declinazione che c’è e c’è da sempre. 

Insieme al problema dell’abitudine, poi, credo che ci sia anche il problema dell’autorevolezza. Siccome fino a poco tempo fa questi mestieri li facevano solo gli uomini e non si credeva molto nella capacità femminile di svolgerli (penso all’avvocato, l’architetto, il medico, l’ingegnere, il ministro, il presidente del consiglio, il presidente d’azienda, eccetera), usando la forma maschile sembra di essere più autorevoli. Anche questo è un frutto della semplice abitudine ed è soltanto smettendo di farlo e cominciando a declinare al femminile che piano piano questa cosa andrà a scemare.

Natalia Ginzburg, che è una delle mie scrittrici preferite, si definiva scrittore: era, diciamo, una forma di ignoranza in senso buono. All’epoca, infatti, non c’era ancora una riflessione femminista tale per cui ribellarsi a questa idea che il maschile sia superiore. Quindi si cadeva nell’inganno di pensare che scrittore sia più importante di scrittrice. In realtà non era un inganno, era il sentire comune e lei lo assorbiva: si definiva scrittore perché la scrittrice era quella che si occupava magari di romanzetti, di roba di serie B. 

Detto altrimenti, se ti sentivi una letterata e avevi aspirazioni un po’ più alte ti definivi scrittore. Ecco, questo è un piccolo paradosso che ho voluto citare proprio perché la Ginzburg è portatrice di grande femminilità. Chi l’ha letta lo sa: è come una madre, una zia, se la leggi ti sembra di averla avuta in casa o di essere stata in casa sua, ne hai respirato la quotidianità, il rapporto con gli oggetti, il rapporto col cibo, con le cose, con le persone. In tutto quello che lei narra, nelle sue storie, c’è uno sguardo che è fortemente femminile e decentrato rispetto a quella che è la letteratura maschile, a come gli uomini raccontano le cose. E quindi, c’è da esserle grate.

Asterischi, e rovesciate… quando l’inclusività viaggia sul web

In termini di inclusività via testi web, c’è chi finisce le parole con l’asterisco, chi con una e rovesciata, chi si sforza di evitare forme maschili come la peste, tu cosa preferisci e cosa ci consigli di fare?

Molti autori e autrici usano l’asterisco alla fine di una parola in modo che non debba essere declinata né al maschile né al femminile e che anzi lasci aperto il campo a opzioni non binarie. Questi asterischi rischiano però di arrivare in modo abbastanza brutale e stravolgere l’estetica della pagina. Ad esempio, faticherai a immaginare un romanzo dove i plurali sono tutti asteriscati per non escludere maschi, femmine o persone non binarie. 

Ecco perché direi che è una questione di contesto: se si stratta di un post su un social o di un testo di un’attivista, mi sembra che l’uso dell’asterisco possa servire a segnalare una questione. Penso che sia utile: un po’ come la sottolineatura di un problema, una spinta forte a considerare le cose in modo nuovo. Più precisamente, un modo per smettere di pensare al maschile come neutro e quindi al maschio come misura universale delle cose umane. 

Io per esempio non lo uso e mi incasino ogni volta nella doppia declinazione maschile e femminile, o cerco modi per evitare di definire. Mantengo questa modalità non perché la pensi migliore di quella con gli asterischi, ma perché la sento più naturale e lascio che il mio disagio della declinazione maschile e femminile si esprima senza dargli una soluzione immediata che, per me e per la mia scrittura, adesso sarebbe troppo brusca. La considero la registrazione di una fase di transizione e cambiamento. Diciamo che ognuno trova la sua soluzione ad hoc! 

 

Sappi, Teresa, che pure noi ci incasiniamo nella doppia declinazione maschile e femminile, e non ci sentiamo a nostro agio con gli asterischi, ma le tue indicazioni sono preziose tanto quanto le tue risposte. Grazie ancora e grazie anche a te per aver letto fin qui! 

Abbracci e alla prossima,

Martha e Paola