Planimetria di un testo felice: intervista a Lia Piano
Se il titolo di questo post ti sembra un po’ strano, ecco svelato l’arcano (che fa pure rima!): è il calco di Planimetria di una famiglia felice (Bompiani, 2019), titolo del romanzo d’esordio di Lia Piano. A lei abbiamo chiesto di indicarci alcuni elementi che rendono felice un testo, ovvero le caratteristiche capaci di far arrivare le parole dalla carta direttamente alla mente e al cuore di chi legge. Perché, diciamolo pure, lei di planimetrie se ne intende, visto che è cresciuta a pane e architettura!
Se ancora ti sfugge qualcosa, ecco il punto di partenza di questa indagine sui generis: qualunque testo scritto, che sia un racconto o un romanzo, il contenuto di un sito web o una lettera di presentazione da allegare al curriculum, rappresenta una porzione di mondo con una precisa scala. Insomma, un testo scritto è qualcosa di molto simile a una planimetria: ha dei confini, fondamenta, stanze, elementi portanti e così via.
Detto questo, bando alle ciance: passiamo la parola a una scrittrice dalla penna ironica e vivace, capace di dare ritmo e leggerezza a una storia che, siamo certe, amerete tanto quanto l’abbiamo amata noi. Con Lia Piano e i suoi consigli di scrittura, inauguriamo la categoria delle interviste sul nostro blog con un sorriso Durban’s a 32 denti. Se questa non è felicità! 😀
L’intervista
Ciao Lia e benvenuta sul nostro blog!
Ciao a voi. E grazie dell’ospitalità.
Se parliamo di planimetria di un testo, parliamo di confini: secondo te, qual è la regola di base per delimitare i confini di un testo senza che ti scappino di mano?
Avere le idee chiare. Magari poche, ma chiare. Sapere quale sarà il punto di vista, e restargli fedele. Che poi significa essere leali con il lettore: se ti racconto una storia dal punto di vista di una bambina, non posso farla parlare come una psicanalista freudiana. Lo stesso vale per gli altri parametri: tempo, geografia, definizione degli spazi. La precisione fa cantare la pagina. Lasciar correre la fantasia a briglia sciolta, ma su un circuito conosciuto. Essere folli, in modo rigoroso.
Cercando la parola scala sul dizionario Treccani, al punto 7.a. leggiamo: “il rapporto numerico fra le distanze misurate sulla carta e quelle reali”. Siamo noi o anche a te questa definizione fa venire subito in mente la questione del punto di vista?
La madre di tutte le decisioni! Nel mio romanzo è stata la scelta più importante. Ho deciso di raccontare una famiglia eccentrica che si imbarca in un’impresa disperata: diventare normale. Ma per raccontarlo ho scelto come voce narrante la più piccola, l’unica che non ha gli strumenti critici ed emotivi per capire che stanno tutti fallendo. Il punto di vista è il cuore dell’intero romanzo.
È un punto di vista particolare: a distanza ravvicinata da terra (visto che chi parla è chiamata la nana) ma capace di andare contro la forza di gravità. Vuoi dirci qualcosa di più?
È stato un esercizio anche fisico. Se decidi di raccontare una famiglia da un metro di altezza ne devi tenere conto, sempre. A un metro d’altezza niente è come sembra: né le stanze, né i genitori, né le distanze, e meno che meno le prospettive. A metà romanzo mi sono resa conto che la nana stava parlando dall’altezza di un’adulta. Ho riscritto tutto.
Ma ogni tanto era necessario uno sguardo più ampio: per questo la faccio salire sulle spalle del padre. Da lì le si spalanca finalmente davanti il mondo degli alti. Ma sono brevi incursioni, poi torna a raccontare la sua famiglia dal suo punto di vista, seppellita nell’erba troppo alta.
Far ridere è molto ma molto più difficile che far piangere. A chi ti sei ispirata per la tua ironia e come hai fatto a tenerla a bada così bene per 154 pagine di fila?
Il punto di vista di un bambino è in sé iperbolico. Capisce le cose a metà, e per il resto interpreta secondo i suoi parametri. Il romanzo è un continuo cortocircuito logico. Dove fa la scintilla, ci scappa un sorriso. E far ridere non significa rinunciare alla profondità. In questo romanzo c’è la nostalgia di un mondo perduto, c’è il desiderio, e la paura, di essere come tutti. E c’è la sconfinata solitudine di non essere capaci di diventare come tutti. Ma la nana non ha tempo di crogiolarsi nella lagna. Fuori c’è il sole, c’è il suo cane Pippo, c’è un mondo intero con cui andare a giocare.
Perché, secondo te, siamo ancora condizionati dall’equivoco che ironia, cultura e comunicazione non possano andare allegramente a braccetto?
Perché confondiamo due cose diversissime: la leggerezza e la superficialità. Non è un equivoco, è un pregiudizio. C’è molto sospetto nei confronti del potere sovversivo dell’ironia. La tragedia ti fa intuire che il re è nudo, la commedia gli tira giù i pantaloni davanti a tutti. È l’ironia che svela il culo nudo del mondo.
Passando dalla bidimensionalità alla tridimensionalità di un testo, quali sono i fondamentali, o se preferisci le fondamenta, prima di mettersi a scrivere anche una sola riga?
Prendersi il tempo. Essere onesti. Tenere a freno l’ego. Non tutto quello che ci è capitato è materia letteraria. Va trasfigurato, deve reggere un processo alchemico di trasformazione. Non basta che il fidanzato ti lasci sull’altare per regalarti una buona storia. Bisogna che quell’addio diventi letteratura. Che faccia molto ridere, o molto piangere, o molto incazzare anche chi ti legge. Se no devi lasciarlo nelle pagine del tuo diario. Sta meglio lì.
A pagina 38 del tuo libro, nel capitolo dedicato a Il pollaio partecipato, leggiamo: “quello che sembrava facile nella nostra fantasia si rivelò molto più complesso una volta toccata terra. Capimmo che dove due pezzi si incontrano scoppia inevitabilmente un casino. Che l’arco è un sistema democratico, se non sono d’accordo tutte le pietre ti frana in testa. Che se non riesci alla prima devi riprovare, ma se fa ancora schifo alla trentesima forse lo devi ripensare. E che tutto, ma proprio tutto, pesa”. Ci sembra una bellissima metafora della scrittura! Puoi svelarci alcuni dei tuoi sistemi di sopravvivenza all’impresa scritta?
Quella pagina è in realtà una metafora di tutto: della scrittura, dell’architettura, e della vita intera. L’ho messa nel capitolo in cui i bambini, costruendo un pollaio in fondo al giardino, imparano dalla materia quello che i genitori non spiegano con le parole. Altro punto saldo del libro: in questa famiglia nessuno fa la morale, ma tutti danno l’esempio. Si impara di più da un arco che ti frana in testa che da un mese di catechismo. Sono fatti così.
E quali sono i pesi e i contrappesi da valutare in un testo perché si regga in piedi e resti pure ben saldo?
Posso dirti come ho fatto io. Ho preso alcuni punti fissi. Di uno abbiamo già parlato, ed è l’altezza di sguardo. Il secondo è stato per me l’unità di luogo, e la precisione nella descrizione degli spazi. La casa è esistita davvero, ed è esattamente come descritta nel romanzo. Qui hai già pesi e contrappesi: decidi di raccontare un fallimento, ma lo fai raccontare a una bambina. C’è già l’antidoto alla lagna. Idem per la casa: giuri fedeltà a una planimetria, e poi in quelle stanze fai soffiare sempre un gran vento che scombina tutto.
Trovi qualche parallelo con imprese architettoniche andate in fumo, o meglio, in pezzi senza volerlo?
Tutto va in pezzi senza volerlo, a volte d’improvviso e fragorosamente, a volte piano piano. Tutto crolla, in fondo, per le stesse cinque o sei leggi universali. Vale per edifici, libri, matrimoni, governi. Su tutto impera poi la più antipatica delle leggi: la forza di gravità. Le opinioni sono opinioni, ma alla fine decide la materia. Sempre.
Com’è nato il titolo del tuo libro?
Da un testa a testa con la mia editor, Giulia Ichino. Io avevo in mente “Trinitrina”. È uno dei nomi della nitroglicerina, ed è il nome della barca che il padre costruisce nel seminterrato (oltretutto prendendo male le misure, con il risultato che per far uscire la barca dovranno abbattere un muro portante).
La mia editor aveva un’idea diversa. Un giorno mi ha messo sotto il naso l’indice del romanzo, con i titoli di ogni capitolo. Era indiscutibilmente una planimetria. Solo che invece di disegnarla io l’avevo raccontata.
Che caratteristiche deve avere un testo, un racconto o un romanzo, perché faccia breccia nel tuo cuore di lettrice?
Dev’essere scritto bene. Per “bene” intendo che devo alzarmi in piedi a metà pagina e pensare: “ma come cazzo hai fatto?”. Poi certo: la trama la storia la struttura e tutto quello che vi pare. Ma se è scritto bene io mi appassiono anche al bugiardino dell’aspirina.
Che rapporto hai con i social?
Altalenante. Mi diverto, mi annoio velocemente, mi posto e mi pento.
Anche qui vale la regola di ogni parola scritta: siamo certi che tutto quello che pensiamo sia davvero così interessante da essere condiviso? Io rivaluterei anche la vecchia abitudine di parlare al gatto, ogni tanto.
Cosa significa per te comunicare?
Domanda difficile. In breve: tracciare una mappa, segnare un percorso, accorciare le distanze.
Che consiglio daresti a chi vuole mettere le mani in pasta della scrittura professionale?
Dipende da moltissimi fattori. Da oltre dieci anni curo una collana di monografie di architettura. Ho volutamente eliminato qualsiasi testo: prendo un edificio e lo smonto completamente di pagina in pagina, dal tetto all’ultimo giunto. Un tentativo di spiegare l’architettura usando i suoi stessi strumenti: piante, sezioni, prospetti. In qualche modo si tratta di scrittura professionale. Ma non uso una parola.
Prima di salutarci, l’ultimo libro che hai letto e che ti è piaciuto e un libro del quale non puoi fare a meno.
Ultimo libro: il Ciarlatano di Isaac Singer. Un libro grottesco, comico, a tratti terribile. E attualissimo. Oggi il protagonista sarebbe definito un narcisista patologico. Singer ne da una definizione più precisa: semplicemente un ciarlatano. Ne sono pieni i social, per tornare alla domanda precedente.
Il libro del quale non potrei più fare a meno è quello che ho appena scritto. Volente o nolente, e bello o brutto che sia, è una parte di me che ha preso il largo.
Grate per questa navigazione a vele e pagine spiegate, ci rincresce di essere già alla fine di questa intervista! Staremmo ore ad ascoltare Lia e a leggere le sue parole limpide e intense, sempre capaci di far luce dove necessario.
Se i romanzi d’esordio risultano spesso indispensabili per chi li ha scritti, in questo caso, vale lo stesso per noi che abbiamo letto Planimetria di una famiglia felice. Incantate di entrare nel mondo magico e vivido di un’infanzia sottosopra, facciamo fatica a prendere le distanze dalla Nana, dal cane Pippo, dalla carrellata di figure surreali e straordinarie che danno vita a una vicenda familiare fuori dagli schemi.
E visto che di planimetria si tratta, a nostro avviso l’unità di misura di questa bella storia sta anche nella sua scrittura, nel tocco lieve ma a tratti iperbolico che percorre ogni pagina di questo libro. That’s ammore: grazie Lia!